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Quel ponte che segna il confine
 

di Davide Berruti e Monica D'Angelo
Coordinatore Nazionale e Responsabile area Balcani, Associazione per la Pace

da Liberazione, 21 marzo 2004

     
 

In questo momento il personale italiano dell'Associazione per la Pace, una cooperante ed un volontario, sono rinchiusi all'interno della base militare della Kfor francese a Kosovska Mitrovica. Non sono stati "evacuati" come molto altro personale internazionale in queste ultime ore in Kossovo, ma semplicemente "riallocati" in un luogo più sicuro rispetto al quartier generale dell'Onu. Le condizioni di sicurezza per trasportare il personale internazionale lontano dagli scontri non c'erano. Sono stati scortati dai blindati ieri notte e ora si trovano al sicuro all'interno della base militare ma ancora vicini a quella linea di confine geografico, politico ed etnico che è il fiume Ibar.

Quante volte abbiamo attraversato quel ponte dopo il 1999 non lo so. Una volta non ci hanno permesso di attraversarlo con l'auto perché c'era il coprifuoco, costringendoci a lasciare l'auto a sud e trasportare i bagagli fino a casa nella parte nord. Eravamo presenti l'ultima volta che si sono verificati scontri di una certa gravità, nell'aprile del 2002, e in quell'occasione lo attraversammo solo dopo 24 ore di attesa, qualche serbo e un soldato francese feriti. Poi siamo riusciti ad attraversarlo insieme al primo gruppo di turisti italiani nel Kossovo del dopo-guerra, nell'estate di quello stesso anno. E siamo riusciti a farlo attraversare per la prima volta anche ai bambini serbi e rom per recarsi a realizzare il circo della pace a sud, nell'estate 2003, prima attività multi-etnica dopo anni di lavoro parallelo con le comunità.

Lo abbiamo attraversato l'inverno scorso, quando una granata è stata lanciata contro la sede della polizia dell'Unmik, e lo abbiamo attraversato questo inverno quando neanche controllavano più i documenti (e sembrava quasi una città normale), se non fosse che i serbi a nord avevano già cominciato a bruciare le case dove si apprestavano a ritornare gli albanesi, e gli albanesi a sud ogni tanto ammazzavano qualche serbo tanto per scoraggiare ogni tentativo di ritorno. I rom continuavano a bruciare solo vecchi legni e copertoni per riscaldarsi, troppo poco coperti con i dieci gradi sotto zero delle serate invernali.

Dopo di noi e insieme a noi hanno cominciato ad attraversarlo anche gli operatori locali, serbi che con molta prudenza si sono spinti dall'altra parte, albanesi e rom che con altrettanta prudenza hanno messo il naso al di fuori delle loro enclave. Sono questi i segnali "pericolosi" che hanno convinto le forze nazionaliste a imprimere un'accelerata all'escalation di violenza da tempo programmata per raggiungere la tanto agognata soluzione definitiva? Anche questi.

Fanno paura, a chi fomenta i disordini, a chi guadagna con il traffico di armi, a chi si arricchisce in un sistema economico poco trasparente, a chi si autolegittima con le armi, tutti i segnali di ripresa del dialogo e di democratizzazione. Le ultime dichiarazioni di Rexhepi e Ivanovic andavano in questo senso. La gente lo voleva.

Abbiamo incontrato decine e decine di giovani durante questi anni e in tutti era forte l'esigenza di tornare alla normalità, anche se questo significava lavorare con la controparte. I fatti dimostrano il contrario? No, i fatti dimostrano semplicemente che non appena queste esigenze si manifestano vengono stroncate sul nascere. E' questa la prima guerra che si combatte in Kosovo come in altri territori non pacificati come la Bosnia. Troppi interessi economici e politici dietro il conflitto per consentire il ritorno alla normalità.

Quali mezzi abbiamo messo in campo per condurre questa guerra? Pochi ed inadeguati. Distolti verso nuove emergenze, Afghanistan prima, Iraq dopo. Chi come noi è rimasto a Mitrovica, lo ha fatto con pochi spiccioli della cooperazione decentrata (grazie al Comune e alla Provincia di Venezia). Il grosso della cooperazione internazionale ha finanziato la ricostruzione delle case (ora ridistrutte), delle strade (che i mezzi cingolati pesanti distruggeranno nuovamente), o degli ospedali (ancora divisi etnicamente), oppure il ritorno dei profughi (prima discriminati, poi sfollati, poi vittime) ma solo una piccola parte la formazione al dialogo e alla tolleranza, l'empowerment dei gruppi nonviolenti, la democratizzazione diffusa e dal basso, il disarmo delle milizie di entrambe le parti. L'Uck non solo è stato tollerato (tranne alcuni esponenti di spicco incriminati dal Tpi con conseguenti proteste dei nazionalisti) ma è stato trasformato in formazione di polizia ufficiale, i paramilitari serbi tollerati per par condicio. Si dice ora: "il fallimento dei tentativi di dialogo", "il fallimento delle politiche inter-etniche": si tenta di costruire (sul terreno paludoso dei bombardamenti Nato) un palazzo con dieci sacchi di sabbia e uno di cemento, il palazzo crolla e si da la colpa al cemento.

 
     
     

 

 


 
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